Tommaso Pincio
Story
Il cielo sopra Londra
Uno scrittore ha osservato il fotografo Sølve Sundsbø lavorare al Calendario Pirelli: un mondo che richiama visioni più vaste.
Londra. Appena si lascia la città o si è in viaggio per raggiungerla dall'aeroporto o da un qualsiasi luogo lontano dal centro, la cosa che sempre colpisce e incanta, imponendosi su ogni altro elemento di un paesaggio peraltro per nulla spoglio o anonimo, è quel cielo smisurato e vertiginoso, un abisso al contrario, un pozzo di aria e luce senza fondo. Mi chiedo perché sembri tanto più alto del nostro. È il quarto giorno che facciamo la spola tra Kensington e Uxbridge, che dista più di venti chilometri da Charing Cross, ma resta comunque all'interno della M25, il grande raccordo che chiude in un anello Londra segnandone di fatto il confine estremo.
Partiamo al mattino e torniamo la sera, per cui siamo ormai al settimo viaggio e, malgrado abbia io un buon senso dell'orientamento, riconosco i dintorni soltanto quando siamo in prossimità della meta. O l'autista cambia percorso ogni volta, o io mi lascio distrarre dal cielo che scorre fuori dai finestrini. È sempre la stessa storia, quando vengo da queste parti. Il cielo inglese rapisce, sembra infinitamente più alto, anche quando non è azzurro ma grigio piombo, coperto da nuvole enormi, sterminate anch'esse; nuvole a volte basse e oppressive. Eppure, nonostante i suoi colori scuri e le sue nuvole basse, rasenti le case e l'orizzonte, quel cielo non cessa mai di svettare.
A dirla tutta, non è solo il cielo. Vi è qualcosa nell'aria, nella qualità della luce. Non per niente, quando Michelangelo Antonioni decise di portare sul grande schermo La bava del diavolo di Julio Cortázar, spostò da Parigi a Londra l'azione del racconto centrato su un fotografo che, dopo ingrandimenti successivi di immagini scattate per caso, scopre qualcosa che non era stato capace di vedere con i propri occhi. Il crudo nitore che assumono qui i dettagli, i colori densi e pieni, descrivono una magia della visione che in pochi altri luoghi si manifesta con pari intensità. Londra è il paradiso della fotografia.
Il caso vuole — se vogliamo credere al caso — che sempre qui, negli stessi anni in cui la Swinging London faceva da set a Blow Up, abbia preso forma un'idea che con la fotografia ha molto da spartire, il calendario Pirelli. Fu infatti la filiale inglese dell'azienda a pensare di dare una dignità nuova a un oggetto destinato esclusivamente a un pubblico maschile che non andava per il sottile, un feticcio lubrico da tenere seminascosto, appeso all'interno di un armadietto di metallo, in un retrobottega, nell'abitacolo di un camion. L'intento era di trasformarlo in qualcosa di cui non vergognarsi, anzi da esporre in bella vista, farne un oggetto artistico insomma, e per ottenere questo risultato era necessario che la protagonista del calendario fosse la fotografia in sé e dunque il fotografo, prima ancora che le donne ritratte.
Per la prima edizione, venne individuato un amico dei Beatles, una giovane promessa di nome Robert Freeman che si era fatto apprezzare per alcuni scatti di John Coltrane e Dizzy Gillespie. Col senno di oggi, tutto questo può apparire banale, tanto la bella fotografia è diventata immediata e alla portata di chiunque. All'epoca non era così. Se vado indietro con la mente - ahimè, ho superato da poco i sessanta come il calendario - le fotografie affiorano dai ricordi come un oggetto raro, complicato, quasi sempre privo di qualità estetiche. O si manifestavano nel bianco e nero molto sgranato dei quotidiani, o le si andava a ritirare dopo giorni di attesa nei negozi di ottica; ti porgevano una busta e tu, trepidante, manco fosse l'esito di un esame diagnostico, ti chiedevi: «Come saranno venute?» e anche quando erano venute bene, ti ritrovavi tra le mani, insieme ai negativi, immagini goffe, stampate su carta con colori slavati e tristi. Forse niente più di come si è evoluta la possibilità di catturare immagini con una macchina ci mostra lo scorrere dei tempi, il loro cambiare. Forse la fotografia in sé è già un calendario.
Quello Pirelli del prossimo anno è stato affidato a Sølve Sundsbø, che ha scelto di lavorare in un avamposto della tecnologia, un'avanzata struttura per la produzione cinematografica virtuale con schermi ad altissima definizione che consentono di creare grandi ambienti in cui lo sfondo — che sia un interno, una città del futuro, un mondo generato al computer o un paesaggio ripreso in precedenza - avvolge gli attori e gli elementi fisici del set. La scelta di un luogo chiuso è funzionale alla creazione dei mondi che Sundsbø ha in mente per il calendario.
I set che ha allestito all'interno di questo studio dalle mille risorse tecnologiche sono a loro volta spazi chiusi. Alcuni sono vere e proprie scatole, come la teca piena d'acqua con Eva Herzigová che fluttua in pose a metà tra una sirena senza coda di pesce e un Houdini senza catene. Altri hanno confini meno visibili ma in cui si percepisce comunque la geometria tipica di un atelier dove ogni cosa ha un suo posto, malgrado il caos apparente.
Venus Williams avvolta da esplosioni di fuoco che paiono roventi macchie di Rorschach. E poi un manto di terra sabbiosa, quasi marziana, su cui si distende il corpo minuto ma atletico di FKA twigs. Un tappeto d'acqua con Susie Cave che emerge da lievi onde rese dense e calde come metallo fuso dalle luci. Luisa Ranieri stagliata nel nero, mentre un lungo velo bianco mosso da ventilatori le si adagia addosso fasciandola come una Madonna velata.
Prima di chiudersi in questo tempio dell'immagine, Sundsbø è stato sulla costa settentrionale del Norfolk, dove ha ripreso in time-lapse panoramiche di un cielo forse ancora più alto di quello dei dintorni londinesi, poi servite quale sfondo di nuvole per Du Juan. Gli spazi aperti di quelle spiagge, con mare, cielo, vento e luce che si fondono in una cosa sola, riflettono il carattere dell'uomo, le sue origini. Sundsbø è norvegese, viene da luoghi in cui la natura è sovrumana e ancora indomita, una natura agli antipodi dall'incanto delle curve morbide e dei colori tenui che vediamo sfumare nella luce tutta ideale dei quadri di Leonardo e di tanta altra pittura italiana. In quelle latitudini prevale lo stupore sgomento che suscita l'abisso. «Sentivo l'immenso Grido che pervade la natura» ha scritto Munch in una versione a pastello di quella che in fondo è la Gioconda del Grande Nord, l'uomo che porta le mani alla testa e spalanca la bocca. Chi è stato in Norvegia può capire di cosa parlava il pittore, e anche se Sundsbø è mosso da un'irrequietudine più gioiosa, il suo legame con la natura è altrettanto profondo.
Vive a Londra da molto. Ci è arrivato in gioventù, nel mezzo degli anni Novanta, mentre la città viveva uno dei momenti più intensi della sua storia artistica, una seconda Swinging Era, quella di Sensation, la mostra alla Royal Academy che ha consacrato la scena degli Young British Artists, con opere come il celebre squalo in formaldeide rinchiuso da Damien Hirst in una enorme teca. Londra era sembrato a Sundsbø il posto ideale per dedicarsi alla fotografia, che aveva scoperto grazie al bianco delle piste riprese in certi nastri Vhs che guardava nel negozio di sei in cui lavorava. Sciava anche molto. Quel bianco era per lui uno spazio da riempire e definire con il movimento e i solchi scavati nella neve dagli sci. Segni semplici e di una brutalità inaspettata, come i tagli di Lucio Fontana, capace di fare emergere un mondo da un vuoto apparente. A questo, in effetti, abbiamo assistito negli ultimi quattro giorni: al frenetico allestimento, anzi alla nascita di piccoli mondi isolati dalla città che è fuori dallo studio e da tutto il resto. Per quanto, definirli piccoli non ha molto senso. Sono come i sogni e i giardini: spazi in cui le dimensioni contano relativamente, perché a distinguerli non è la grandezza ma il fatto di essere luoghi altri, separati dal resto. In una sola parola, mondi.
Non per niente, il primo degli ambienti immaginato da Sundsbø è stato proprio un giardino, una stanza bianca abitata da piante di ogni tipo, con Tilda Swinton che si aggirava in quella sorta di biosfera, una creatura aliena in cerca di una connessione profonda con foglie e fiori. Creature: in effetti questo sono lei e le altre donne chiamate a posare in questo calendario. Ognuna è stata chiamata a entrare in simbiosi, a diventare una creatura nuova, in armonia con un elemento, che sia l'aria, l'acqua, il fuoco, la terra, l'etere, le piante o la luce, laddove «elemento» va inteso nel senso di ambiente, di mondo, forme diverse di una sola materia. Spesso, infatti, sui vari set si fatica a distinguere una cosa dall'altra. La terra sembra infuocata, l'acqua luce, il fuoco un liquido, con i corpi delle creature a fare da vasi comunicanti tra il mondo di un elemento e quello di un altro.
Sundsbø ama ripetere che gli scienziati sono le persone più creative del nostro tempo. Ha ragione: la scienza crea mondi né più né meno come li crea l'arte, perché artisti e scrittori — quelli veri, almeno — non si limitano a ritrarre soggetti e raccontare storie; ci aprono le porte di mondi che ricordano il nostro pur risultando inattesi, spaesanti, irreali. Borges sosteneva che Poe avesse creato un mondo immaginario per sfuggire a quello reale. Forse è possibile azzardare qualcosa di più, ovvero che quel mondo gli servisse non soltanto come piano di fuga ma per sopravvivere alla realtà e provare a capirla, a conoscerla. Quante volte infatti il mondo ci sembra assurdo e incomprensibile? Prima ancora che per evadere, i mondi immaginari ci servono per ristabilire l'intesa — a volte perduta, a volte non ancora trovata — con quello reale. Il mondo, comunque lo vediamo o crediamo di vederlo, va immaginato, ovvero ripensato di continuo, per ritrovare un'armonia, una connessione intima tra scienze e arti e ogni alta umana impresa; tra i nostri tanti saperi, sempre più parcellizzati, specialistci, distanti tra loro quando non in conflitto.
Fuori dall'auto continua a scorrere il cielo e io mi chiedo perché sembri tanto più alto del nostro. Sarà un miraggio del nord. Nel deserti credi di vedere oasi, qu un cielo più alto che altrove. Del resto, la semplice idea di un cielo più alto ha un che di insensato. Fin dove il cielo resta cielo, infatti? Fin dove c'è atmosfera? Fin dove persiste l'azzurro? Poi mi illudo di avere un'illuminazione. Sono le nuvole. Il modo rapido e vorticoso in cui si muovono da queste parti allarga il cielo, ne fa una distesa accidentata in cui si aprono voragini capaci di inghiottire ogni cosa. In un attimo mi passano davanti agli occhi i quadri di Turner in cui poco o niente si distingue perché tutto è fatto di un unico e lucente elemento, un cielo perennemente turbinoso. Penso a John Constable e ai suoi studi di nuvole. Sono loro il segreto di questo cielo, le nuvole che Sundsbø ha fotografato in time-lapse nel Norfolk. Come è bello il mondo, quando si rivela.
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